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Un’inchiesta inedita
di Lidia Baratta

Un’edizione speciale della nostra newsletter del sabato, in occasione dell'appuntamento 

Giovani senza mercato, mercato senza giovani. Inchieste sul mercato del lavoro Under 30  martedì 15 novembre alle 18.30 alla Libreria Feltrinelli di Largo Argentina, Roma.

 

Roma è stata a lungo la capitale del posto fisso. Tra Parlamento, ministeri, enti di vario tipo, scuole, università, società partecipate, qui è nato e cresciuto il centro nevralgico della pubblica amministrazione italiana. I palazzi romani rappresentavano la meta per chi era alla ricerca della stabilità lavorativa per concorso. Finché sulle casse statali sono piombate due parole: blocco del turnover e spending review.


Dagli anni Novanta in poi, la figura di Ugo Fantozzi che tenta di prendere l’autobus al volo sulla Tangenziale Est romana è stata via via rimpiazzata da quella del precario pubblico. Tra il traffico e i sampietrini, si è fatto strada un moderno esercito di statali a scadenza in perenne attesa di stabilizzazione. Che ha inaugurato così l’ingresso della “flessibilità” nel mondo del lavoro pubblico.


Accanto alle scrivanie dei garantiti contratti a tempo indeterminato, si sono seduti i tempi determinati, i cocopro, i cococo, le partite Iva e i consulenti in appalto. Poi, la necessità di contenimento della spesa pubblica ha fatto il resto. Fino alla condanna dell’Italia, da parte della Corte di Giustizia europea, per abuso dei contratti a termine nel settore pubblico.

 

A Roma, circa un quarto della forza lavoro, il 25,1%, è occupata nel settore pubblico. Una percentuale cinque punti sopra la media nazionale

 

Quella sentenza, nel 2014, era nata da un contenzioso avviato da migliaia di supplenti della scuola. Allora i sindacati dissero che avrebbe finalmente messo fine al precariato non solo nelle aule scolastiche, ma anche negli altri uffici pubblici.


Otto anni e sette governi dopo, invece, il nostro Paese conta ancora circa 109mila lavoratori pubblici con contratti a scadenza. Ed è pure maglia nera in Europa per numero di precari della scuola: 914.839 i docenti, 265.212 tra il personale Ata.


Solo nel Comune di Roma, secondo i dati del sindacato Anief (Associazione nazionale insegnanti e formatori), si contano 17.150 docenti precari, pari al 28% del totale degli insegnanti capitolini.

 

La giungla della scuola

 

«Sono una precaria della scuola pubblica da 11 anni», racconta Marika Marianello, 40 anni, insegnante di spagnolo, con una laurea, un master, un dottorato e un post doc alle spalle.

«Da 11 anni lavoro nelle scuole con contratti rinnovati di anno in anno. Il primo anno ho cominciato con uno spezzone di tre ore, ma per tutto l’anno. È importante lavorare tutto l’anno per accumulare punti e salire in graduatoria».

 

In questi anni di scalata delle graduatorie della scuola, Marika ha visto passare governi, riforme e ministri dell’Istruzione. Di anno in anno, si sono affastellate nuove regole di reclutamento e abilitazione. E soprattutto sigle. Una lista infinita di acronimi che nel linguaggio dei precari della scuola sono il pane quotidiano. Ssis, Tfa, Gae, Gps, Mad.

«Prima chiamavano solo tramite le graduatorie di istituto», spiega Marika.  «Dal 2020 sono state ideate le Gps, Graduatorie provinciali scolastiche, con un algoritmo che chiama sulla base dei desiderata inseriti dagli aspiranti docenti. Ogni anno devi inserire su una piattaforma un elenco di 100 scuole. Il tutto va fatto tra il 13 e il 15 agosto».

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A ferragosto, al mare o in montagna, c’è da compilare la lista delle preferenze. Ogni anno la stessa storia: i precari aspettano, eppure al suono della campanella mancano sempre insegnanti. E le cattedre restano vuote.

Insieme a Marika c’è Elena Sofia Tarozzi, 25 anni, di Bologna, maestra alle elementari, laureata in Scienze della formazione primaria.

 

«Io come maestra “nasco” con le Gps», dice. Nascere con le Gps, per Elena, ha significato poter cominciare a lavorare ancora prima di laurearsi. Nel 2020, davanti alla carenza di personale, l’allora ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina stabilì che potevano accedere alle graduatorie anche gli studenti di Scienze della formazione primaria.

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«L’ultimo anno da studentessa ho lavorato prendendo lo stipendio, ma senza accumulare punteggio». Questo era il patto. «Poi, dopo la laurea, sono scesa a Roma, ma senza poter modificare la provincia e il punteggio delle Gps», dice Elena.

 

Non una cosa di poco conto, perché con la laurea si guadagnano 90 punti in più. Una volata in avanti nel jackpot della scuola.

Una volta arrivata a Roma, Elena è passata prima per le Mad, che sta per Messa a disposizione. In pratica, si contattano le scuole e si comunica la disponibilità a insegnare. 

«All’inizio ho fatto quattro mesi con contratti da uno, due, tre giorni al massimo», racconta. A un certo punto Elena non ne può più e passa in un’altra scuola come “personale Covid”, gli insegnanti chiamati a coprire i contagiati e quelli che si sono rifiutati di vaccinarsi.

 

«Sono andata avanti fino a marzo con contratti da un mese. Poi hanno eliminato i posti Covid e, solo grazie alla referente di plesso, sono rimasta nell’istituto. Ho girato tutte le classi dei tre plessi, coprendo tutti i buchi, ma mi sentivo una baby sitter non un’insegnante».  

 

Finché è arrivata la possibilità di cambiare provincia di riferimento per le Gps. Elena sostituisce Bologna con Roma e aspetta il punteggio più alto ottenuto con la laurea. «Invece no, compaiono 14 punti anziché 98», racconta.

 

«Ho passato tutti i primi venti giorni di agosto tra chiamate e mail. Fin quando per contatti ho raggiunto una persona amica di un amico che aveva possibilità di accedere a questo portale e ha inserito il punteggio giusto a mano».

 

Ma il percorso a ostacoli non finisce qui.

«Quando sono arrivata a scuola, eravamo in nove, i posti reali però erano quattro. Siamo stati sei ore abbandonati nell’atrio scuola. La nostra dirigente ci ha fatto lavorare per due settimane senza contratto. Poi alcuni sono stati lasciati a casa, altri rimbalzati dall’altra parte di Roma. Io ho avuto fortuna e sono rimasta».

 

In Italia, su 270mila docenti in servizio, oltre 45.000 sono i precari: il 16,78% del totale

 

L’algoritmo, alla fine, per quest’anno ha assegnato a Elena una cattedra per il sostegno. Lei sorride mentre racconta i suoi soli due anni da insegnante precaria. Alla fine tira un sospiro di sollievo e dice: «Per quest’anno è andata. C’è chi è messo peggio di me».

 

Perché quello dei racconti dei precari della scuola è un genere letterario a sé. Nelle chat collettive si rincorrono cavilli burocratici, pendolari che fanno su e giù tra Roma e Napoli, case affittate a vuoto, le fantomatiche convocazioni fino a «nomina avente diritto», assegnazioni e riassegnazioni. E c’è sempre «qualcuno messo peggio».

La storia di Maria Conte, 30 anni, insegnante di italiano, storia e geografia, aggiunge un altro tassello.

 

«Dopo due anni da precaria nella ricerca universitaria, ho deciso di provare con la scuola», racconta seduta in un bar del Pigneto, a pochi minuti da casa sua. Ha poco tempo a disposizione. Da lì deve prendere il motorino e farsi mezz'ora di Tangenziale in scooter per arrivare nella scuola media di Torrevecchia che le è stata assegnata per quest’anno.

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Prima di arrivare a quella assegnazione, però, «è stato un delirio». Maria racconta tutto d’un fiato.

«All’inizio sono stata chiamata dalle graduatorie d’istituto in una scuola per adulti vicino casa mia», dice. «Il contratto era di 15 giorni in 15 giorni, ma sapevo che la cattedra era vuota per un’aspettativa per dottorato e che quindi la supplenza sarebbe durata un anno. Ero felicissima e ho iniziato. Dopo quattro settimane, però, mi è arrivata la chiamata dalle Gps per una scuola a Torrevecchia, dall’altra parte di Roma. Ho provato a capire se potevo non accettarla e rimanere dov’ero. E qui si è scatenato un putiferio di burocrazia».

 

La chiamata arriva alle 19.30 di sera, con la richiesta della presa di servizio entro le 14 del giorno dopo.

«Sono andata nella mia vecchia scuola ma non riuscivano a darmi la certezza che sarei potuta restare lì. A quel punto, alle 13.30, ho preso il motorino, sono andata a Torrevecchia e ho preso servizio». Ma «la cosa paradossale è che, una volta arrivata, ho trovato la persona che copriva quella che sarebbe stata la mia cattedra che voleva restare lì. Lei, dall’altra parte di Roma, era nella mia stessa situazione. Siamo scoppiate tutte e due in lacrime».

 

Storie e vite precarie che si incrociano tra un punteggio e una graduatoria.

«Cambiare aria e scuola, abbandonare relazioni per ricostruirne nuove in altri luoghi può essere a volte faticoso altre volte stimolante, dipende dalla fase di vita che si sta attraversando», dice Marika.

 

Senza dimenticare le conseguenze che questo sistema ha sugli studenti. 

«I ragazzi di terza media nella mia scuola sono arrivati già all’11esimo professore di matematica», racconta Maria. Perché, conclude Marika, «la continuità didattica va di pari passo con il diritto al lavoro. E continuità didattica vorrebbe dire non avere precari».

La continuità didattica è sempre meno garantita a decine di migliaia di studenti italiani di ogni ordine e grado

 

Censimento precario

 

Ma la precarietà, tra contratti e stipendi a singhiozzo, è discontinua per definizione. Un controsenso per i servizi pubblici, dall’istruzione alla sanità, che devono invece garantire l’erogazione quotidiana.


Emblematico è il caso dell’Istat, il cervellone nazionale che macina senza sosta dati e numeri per fotografare l’Italia e gli italiani. Sulla terrazza della sede nazionale di via Cesare Balbo, con vista sui tetti di Roma, Alberto Violante, ricercatore, e Daniele D’Ambra, tecnico informatico, raccontano la lunga vertenza che ha portato alla loro stabilizzazione nel 2017.

 

Ormai ex precari, entrambi sono rappresentanti del sindacato autonomo Clasp, Coordinamento lavoratori della statistica pubblica.

«Quella del 2017 è stata l’ultima stabilizzazione dell’Istat», spiega Alberto. «Poi, nonostante dal 2011 l’istituto sia passato al censimento permanente, non sono state programmate acquisizioni di personale».

 

E così, tra il regolare flusso di pensionamenti e le uscite anticipate con quota 100, si è passati dai poco più di 2.300 addetti del 2014 ai 1.869 di metà 2022. Oltre 400 dipendenti che non sono stati rimpiazzati.

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«Da qui, per compensare la mancanza di personale, sono iniziate le esternalizzazioni, dalla raccolta dati al settore informatico», osserva Daniele. «Pezzettino per pezzettino».

Fino allo sciopero di giugno 2022, che ha visto aderire il 70% dei dipendenti di Istat, contro il progetto di affidamento in blocco di tutto il settore informatico alla nuova società “3i”, dove le tre “i” stanno per Istat, Inps e Inail.

«Una società con partecipazione di capitale di questi tre enti legata anche ai progetti di digitalizzazione del Pnrr», spiega Daniele. 

«È la logica del privato più efficiente che viene portata come soluzione migliore rispetto al rifinanziamento del pubblico».

 

Il trasferimento del “peso” del lavoro all’esterno in Istat era iniziato già dalla fine degli anni 2000, con l’esternalizzazione della raccolta dei dati affidata alle società vincitrici delle gare d’appalto. Cosicché i rilevatori dell’Istat, quelli che ogni mese permettono per esempio di calcolare il tasso di disoccupazione, hanno finito per essere loro stessi vittime del mercato del lavoro.


Per l’indagine sugli occupati, un rilevatore in appalto guadagna 21 euro lordi a intervista. Per quella sulla spesa delle famiglie il pagamento è di 28 euro. In entrambi i casi, vengono aggiunte 18 euro lorde di indennità.

«A seconda del territorio e del campione, si arriva a 1.200-1.500 euro al mese», racconta uno dei rilevatori. «Ma in questa cifra sono comprese tutte le spese di spostamento. Senza contare che se ti ammali o vai in vacanza, non fai interviste e non guadagni nulla».


Dal 2009 in poi, a vincere le gare per la raccolta dei dati Istat è stato sempre il consorzio Almaviva-Ipsos, l’unico a garantire un alto livello di qualità.

«Ma ultimamente molti appalti iniziano a essere vinti non più dal consorzio. Il che sta dando vita a una serie di ricorsi», spiega Alberto. «Ormai nessuna grande ditta riesce a tollerare i contratti nazionali. Per cui vengono stipulati contratti parasubordinati il cui pagamento sfugge ai minimi tariffari».

 

I contratti stabili si perdono così lungo la filiera delle gare d’appalto necessarie a far funzionare la macchina amministrativa. Di fatto, dice Daniele,

«Istat come datore di lavoro ha solo la formula del contratto a tempo indeterminato. Ma la consulenza è lo strumento attraverso cui l’istituto, e la PA in genere, continuano a scaricare il precariato su altri. Formalmente, non occupano i precari ma, definendo necessità di servizi, li acquistano sul mercato».

(Istat) Istituto nazionale di statistica, ente pubblico di ricerca italiano

 

Soluzione in house

 

Il canale d’ingresso principale per il personale “flessibile” della pubblica amministrazione sono state spesso le “società in house”. Vere e proprie società di diritto privato, di cui anche l’Anac ha perso ormai il conto, che lavorano come braccio operativo degli enti pubblici ma che, in quanto private, non devono sottostare ai paletti del pubblico. A partire dalle assunzioni di personale “flessibile”, appunto.


Giancarlo Lo Monaco, 40 anni, da 13 anni lavora per Sogesid, società in house del ministero dell’Ambiente e di quello delle Infrastrutture. Ogni volta che uno dei due enti aveva bisogno di tecnici ed esperti, Sogesid ha risposto selezionando nuovo personale a tempo.

«Nel 2009 sono entrato per occuparmi della revisione del sito Internet», racconta Giancarlo. «Sono stato cocopro fino al 2016. Nei periodi più stabili ho avuto un contratto di due anni, quello più breve è stato di tre mesi. A volte sono passati anche sei-sette mesi tra un rinnovo e l’altro, senza stipendio e continuando a lavorare». 

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Ogni rinnovo prevedeva una selezione per titoli e un colloquio orale. Poi nel 2016 è arrivata la stabilizzazione. «Era prevista la firma di accordo tra le parti in cui rinunciavi a richiedere il danno di stipendi non pagati e loro in cambio ti offrivano il contratto a tempo indeterminato», dice.

 

Da allora, formalmente, la società non ha assunto altri precari.

«Ma continua ad affidare gran parte delle commesse all’esterno», spiega Giancarlo. «Al momento ci sono una novantina di persone tra consulenti e partite Iva».

Si tratta soprattutto di «personale specializzato in materie legali per portare avanti bandi e gare». I contratti «variano dai sei mesi a un anno per le prime assunzioni. Poi, per effetto del decreto dignità che ha imposto il tetto di massimo due anni, man mano che si avvicinano alla scadenza diminuisce la durata».

 

Una manifestazione del Clap, Camere del lavoro autonomo e precario

 

È la stessa gimkana toccata per anni agli operatori di Anpal servizi, altra società in house, questa volta del ministero del Lavoro. Sono quelli che si occupano di far funzionare le politiche attive del lavoro in Italia, trovando un impiego ai disoccupati. E che, per paradosso, sono i primi a rischiare il posto.


Cristian Sica – oggi rappresentante sindacale delle Clap, Camere del lavoro autonomo e precario – ha iniziato a lavorare in Italia Lavoro, poi trasformata in Anpal Servizi, nel 2013. 

«In quel momento la società aveva un bacino incredibile di collaboratori, che poi è cresciuto nel corso degli anni fino ad arrivare a circa 550», racconta Cristian Sica.
Questi contratti duravano «alcune volte anche pochi mesi, altre un anno o due anni, legati ai cicli di programmazione dei fondi europei».

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Finché nel 2019, con l’approvazione del reddito di cittadinanza, l’allora ministro del Lavoro Luigi Di Maio annunciò l’assunzione di quasi 3mila di navigator. Figure che avrebbero dovuto trovare un lavoro ai percettori del sussidio, inventate di sana pianta dal professore Mimmo Parisi, una sorta di guru italo-americano richiamato dal Mississippi in Italia con la promessa di rivoluzionare il mercato del lavoro italiano.

 

E lo strumento scelto per assumere i navigator in tutta fretta, con contratti di collaborazione di due anni, fu proprio Anpal Servizi. Ma mentre 54mila giovani e meno giovani si presentavano alla fiera di Roma per il concorso da navigator con la promessa della stabilizzazione, gli operatori precari di Anpal servizi avviavano la loro vertenza.


«Con l’arrivo dei navigator, Anpal servizi si è trasformata nella società in house con la più alta percentuale di precari in Italia. Eravamo arrivati a oltre il 90%», spiega Cristian. «Questa situazione esplosiva ha generato la creazione di un coordinamento nazionale dei precari storici che ha intrapreso una battaglia di tre anni, con almeno 12 scioperi, presidi e azioni comunicative, che ha portato poi alla stabilizzazione».


Nei giorni in cui i navigator firmavano i contratti a termine, gli operatori in scadenza organizzavano picchetti e sit-in davanti alla sede di Anpal. Precari in ingresso e altri che rischiavano l’uscita. Una guerra tra poveri.

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«Era come se si fosse riarticolata una nuova contrapposizione tra i cosiddetti garantiti, i precari con un’anzianità di servizio più lunga e in quel momento si aggiungeva un’ulteriore lotta con questi nuovi precari appena assunti», racconta Biagio Quattrocchi, che con Cristian ha condiviso la vertenza per la stabilizzazione. «È un po’ la faccia della frammentazione del mercato del lavoro».

Una frammentazione che si sta ripetendo per l’ennesima volta in Anpal. «Nonostante abbiamo ottenuto il contratto a tempo indeterminato», racconta Cristian, «ad aprile 2022 Anpal non ha rinnovato il contratto di 73 collaboratori. Per loro non è stata trovata nessuna soluzione, ma il governo con l’allora ministro Orlando ha trovato invece delle soluzioni tampone per i navigator».  

 

Nel settembre 2018, l'allora ministro del Lavoro Luigi di Maio annuncia insieme ad altri ministri M5S "l'abolizione della povertà" affacciandosi dal balcone di Palazzo Chigi

 

Questo almeno fino al 31 ottobre scorso, quando per i navigator è scaduto il quinto e ultimo – pare – rinvio del contratto. Da quando Di Maio annunciò l’abolizione della povertà dal balcone di Palazzo Chigi, per i navigator si sono susseguite tre proroghe e due rinnovi di contratto.

 

Nel frattempo, da 2.980 sono rimasti meno di un migliaio. E 538 sono già stati lasciati a casa dalla fine di luglio 2022. Per gli altri, dopo un rimbalzo di comunicati tra le regioni e la neo ministra del Lavoro Marina Calderone, si aprono le porte della disoccupazione.

Edoardo Scialis, 30 anni, avvocato, è uno di loro. Fino a fine ottobre, ha lavorato in un centro per l’impiego della provincia di Roma.

«Già a maggio, in attesa di capire se ci avrebbero rinnovato o meno, avevo chiesto la disoccupazione», racconta nell’ultimo giorno di contratto. 

 

«Ero un disoccupato che doveva trovare lavoro per gli altri disoccupati. Ora siamo punto e a capo. Ho detto a una signora arrivata al centro per l’impiego che eravamo nella stessa situazione. E ho salutato i colleghi dicendo: “Mi convoco da solo, vengo e firmo il patto per il lavoro pure io come i percettori del reddito”».

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Edoardo ci scherza su, ormai. Da poco ha fatto l’orale per un concorso all’Inps ed è in attesa dei risultati. Ma è arrabbiato.

«È un lavoro che ho fatto per tre anni e mezzo e ho maturato delle competenze. Sono entrato in servizio subito, ho fatto il kickoff con Di Maio e Parisi. Ma già da lì dovevamo capi’, perché a un certo punto finirono i tramezzini a un certo punto... Non c’erano tramezzini per tutti».

Un navigator manifesta contro le recenti decisioni del governo

 

Scrivanie a scadenza

 

«Quella del personale precario e della sua ricorrente stabilizzazione è una delle vicende più singolari della lunga e complessa storia della pubblica amministrazione in Italia», scrive Giorgio Fontana nel paper La strana storia delle stabilizzazioni dei lavoratori precari nel settore pubblico. La pressione sindacale, politica o elettorale esercitata da questo esercito di lavoratori precari – spiega – si è spesso risolta con la stabilizzazione. 


E «anche se le “sanatorie” sono sempre state accompagnate dal solenne impegno a non ripetere lo stesso errore», la prassi «si è rinnovata nel tempo come un fiume carsico che continua a scorrere e ad alimentare sotterraneamente un bacino di precariato».


Dalla legge Madia del 2015, che puntava al superamento del precariato pubblico, si sono susseguiti decreti milleproroghe, norme ed emendamenti che, a seconda del caso, hanno anticipato o spostato in avanti i termini per le stabilizzazioni. E le piazze romane sono state puntualmente teatro di proteste e sit-in di precari di ogni settore della pubblica amministrazione.  

A Roma, circa un quarto della forza lavoro, il 25,1%, è occupata nel settore pubblico. Una percentuale cinque punti sopra la media nazionale. Ma niente posti fissi, appunto:

 

l’incidenza dei lavoratori che hanno contratti a termine da più di cinque anni nella capitale è pari al 21% sul totale dei lavoratori atipici rispetto al 18,2% del totale nazionale. Così come è più alta l’incidenza del part-time involontario (13,8%).

Nonostante una certa narrazione sulle folle oceaniche che tentano i concorsi pubblici, la precarizzazione del lavoro nella PA ha reso sempre meno attrattiva la prospettiva di lavorare nella pubblica amministrazione

La Capitale, ogni giorno, è meta di quasi 338mila pendolari dai comuni limitrofi o dalle regioni confinanti con il Lazio. La maggior parte di quelli che fanno su e giù dal Grande raccordo anulare risulta occupata nella pubblica amministrazione. E tra questi, la quota di lavoratori atipici raggiunge il 12,3%, a fronte del 10,5% dei residenti a Roma.

 

Le prospettive precarie, con il blocco dei concorsi, negli anni hanno via via ridotto l’attrattività della pubblica amministrazione italiana per gli aspiranti candidati. A Roma, come nel resto d’Italia, «la probabilità che i lavoratori più abili scelgano il settore pubblico anziché quello privato si riduce all’aumentare del rischio di essere assunti con un contratto a termine», si legge in uno studio della Banca d’Italia. Con effetti di «selezione avversa».

 

Risultato: il 55% dei dipendenti pubblici ha più di 55 anni contro il 37,3% del totale degli occupati e solo il 4,2% ha meno di 30 anni.

 

Con il Piano nazionale di ripresa e resilienza post pandemico si sta aprendo una nuova stagione di assunzioni nel pubblico. Ma quasi tutti i concorsi portano la data di scadenza del 2026, quella della conclusione del piano. Non è un caso, forse, che molti dei concorsi legati al Pnrr abbiano ricevuto ben poche candidature.

 

Tanto che, per garantirsi almeno gli 800 tecnici e super esperti necessari nei ministeri per la realizzazione del piano, è stato introdotto in tutta fretta un emendamento al decreto aiuti bis che prevede la loro stabilizzazione dal 2027 attraverso una semplice valutazione positiva e un colloquio.

 

«Adesso siamo in una fase in cui c’è bisogno di un cambiamento. Questo rafforzamento è necessario per migliorare la pubblica amministrazione», dice Cristian Sica. «Ma non c’è un investimento strutturale, non c’è chiarezza nelle forme di selezione e stabilizzazione. E il Pnrr prevede altri contratti a scadenza, che sono potenzialmente nuove sacche di precariato».

 

Prossimi appuntamenti

 

Giovani senza mercato, mercato senza giovani

Un’inchiesta sul mercato del lavoro Under 30 in Italia

Tra Napoli, Roma e Taranto

Secondo appuntamento
il 15 novembre 
Libreria Feltrinelli, Largo Argentina, Roma

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Perché lavoriamo? Di cosa parliamo quando parliamo di qualità del lavoro? Giovani senza mercato, mercato senza giovani è un percorso, in collaborazione con The Adecco Group, di tre inchieste in tre città italiane – Napoli, Roma e Taranto – per incontrare le prospettive delle generazioni Under 30 tra ritiro sfiduciato, desiderio di fuga e voglia di riscatto.

Ne parliamo durante l'appuntamento

DI RUOLO PRECARIO
Roma, pubblico impiego e precari della scuola

15 novembre, ore 18.30

Libreria Feltrinelli, Largo Argentina, Roma


Intervengono

Lidia Baratta Linkiesta, autrice dell’inchiesta
Andrea Ciarini La Sapienza Università di Roma
Alessandra Spagnolo Public Sector Director, The Adecco Group Italia

 

Modera

Sara Menafra Vicedirettore Open

 

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Direttore

Massimiliano Tarantino
Segretario Generale

Cosimo Palazzo

Responsabile della ricerca
Francesco Grandi

Supervisione editoriale

Caterina Croce
Supervisione tecnica
Andrea Montervino
Inchiesta a cura di Lidia Baratta

 

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