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![]() In occasione del secondo appuntamento di Ok Europe. Quattro strade per una cittadinanza europea dedicato a Parigi, un’edizione speciale della nostra newsletter del sabato con un'inchiesta inedita a firma del giornalista Danilo Ceccarelli.
Tra caporalato digitale, con il 90 per cento dei rider che su Parigi lavora con account subaffittati; forme di discriminazione nelle assunzioni, che creano una frattura tra il centro cittadino e la banlieue; un esercito di Neet, che si ritrovano senza nessun impiego e non seguono un percorso di formazione, il mercato del lavoro della capitale francese è alla ricerca di nuove condizioni di equità e di inclusione.
Nella giungla parigina «Il sogno di tutti i rider è quello di essere assunti con un regolare contratto». Mentre parla davanti al centro Pompidou, il museo di arte moderna più famoso di Parigi, Akim (nome fittizio, ndr) ha lo sguardo fisso sulla sua bicicletta, parcheggiata accanto a quelle degli altri colleghi in un momento di pausa tra una corsa e l’altra. «Sai, qui è facile farsela rubare, per questo molti di noi usano quelle del bike-sharing», spiega il ragazzo, mentre un gruppo di turisti si ferma a fotografare la celebre facciata del Pompidou progettata da Renzo Piano.
Trent’anni, arrivato in Francia dalla Costa d’Avorio quattro anni fa, per mantenersi Akim ha cominciato subito a consegnare pizze e sushi per le piattaforme di food delivery come Uber Eats, Deliveroo o Frichti. I primi tempi, non avendo documenti in regola, ha “affittato” gli account di altre persone. Lui parla di “affitto”, ma di fatto si tratta di una forma di caporalato digitale, una pratica che sembra molto diffusa tra i rider della città, sebbene non esistano cifre esatte sull’ampiezza del fenomeno. «Chi non è in regola non può certo lamentarsi, perché lavora sotto falso nome», dice Akim. «Tutti sono a conoscenza di questa situazione».
Il funzionamento dell’“affitto” dell’account è questo: «La persona che affitta il profilo chiede un prezzo fisso o una percentuale su quello che guadagni», spiega Akim. Lui, che ha due bambini, ha tirato avanti in questo modo per due anni, fino a quando, per ironia della sorte, ha ottenuto i documenti proprio grazie alla piattaforma per cui lavorava. «Dopo il primo lockdown, durante il quale abbiamo lavorato tantissimo, il gruppo ha deciso di effettuare controlli per eliminare questa pratica degli affitti degli account. Era un modo per ripulirsi l’immagine, in un momento in cui non avevano più bisogno di molta manodopera», racconta. A quel punto, Akim e gli altri, rischiando di perdere il lavoro, si sono mobilitati. «Era un abuso di potere, così siamo scesi in strada a manifestare. La protesta si è ingrandita e, per evitare polemiche, ci hanno aiutato a normalizzare la nostra situazione». Con i documenti in regola, Akim è diventato quello che in Francia si chiama “auto entrepreneur”, lo statuto che hanno tutti quelli in regola che fanno questo lavoro, per certi aspetti simile alla partita Iva italiana.
La loro battaglia Akim e i suoi colleghi l’hanno vinta grazie soprattutto all’aiuto della Confédération générale du travail (Cgt), il sindacato che, per continuare questo percorso, a giugno ha creato una categoria ad hoc, Cgt Livreurs, la prima sigla parigina dedicata alla categoria dei rider.
E il governo nazionale, negli ultimi mesi, ha dato qualche risposta, riunendo a metà settembre le quattro principali piattaforme (Uber Eats, Deliveroo, Frichti e Stuart) con l’obiettivo di lanciare un piano entro la fine dell’anno per arginare la pratica degli “affitti” degli account che, secondo la ministra del Lavoro Elisabeth Borne, costringe molti rider a lavorare in condizioni “indegne”.
«Circa il 90 per cento dei rider su Parigi lavora con account subaffittati», spiega Mandjou Karaboué, segretario generale della Cgt Livreurs. Una stima approssimativa, forse esagerata, ma che rende l’idea dell’ampiezza del problema. Per il momento, il sindacato non ha lanciato azioni ufficiali, ma si guarda già oltre. «Secondo il codice del lavoro, l’auto entrepreneur è un lavoratore indipendente», dice il sindacalista. «Se così fosse, dovremmo poter discutere direttamente con i clienti i prezzi degli ordini senza passare per degli intermediari come le piattaforme». ![]() Il prossimo passo sarà un’assemblea generale, che si terrà nei locali della “Casa del fattorino”, un centro aperto da poche settimane nel quartiere multietnico di La Chapelle, nel diciottesimo arrondissement, a Nord di Parigi. Uno spazio simile a quelli che stanno sorgendo anche a New York, per poter offrire un luogo di ritrovo e ristoro ai rider nella giungla cittadina.
La struttura parigina viene gestita da CoopCycle, federazione che racchiude alcune cooperative specializzate nelle consegne in bicicletta, con il sostegno dell’associazione Amli e del comune di Parigi, che ha stanziato 35mila euro per il progetto.
Qui, ad accogliere i rider, c’è Circe, coordinatrice della struttura. «È un posto aperto a tutti coloro che lavorano in questo settore, visto che le piattaforme non mettono a disposizione dei locali», spiega. «Si può venire per una pausa, per usare i bagni, per prendere un caffè o per ricaricare il telefono. Ma forniamo anche assistenza amministrativa e giuridica». Mentre parliamo, arriva un nuovo ospite che aspetta sulla porta. Il ragazzo parla a stento francese. È arrivato alla “Casa del fattorino” per sapere come si dichiarano i guadagni del mese su Internet. Circe lo fa accomodare, gli offre un bicchiere d’acqua e per una buona mezz’ora gli mostra con pazienza il procedimento sul computer. «Abbiamo aperto da poco, contiamo di farci conoscere soprattutto con il passaparola», spiega la responsabile.
Ma oltre ai servizi di assistenza, la “Casa del fattorino” punta anche all’inserimento professionale dei rider, che vengono messi in contatto con le cooperative CoopCyle per lavorare con un regolare contratto. Perché, nel perimetro dell’economia delle piattaforme, c’è pure chi sta provando a creare e offrire lavoro di qualità. Non lontano dalla “Casa del fattorino”, sempre a Nord di Parigi, è nata Olvo, una cooperativa che impiega una quarantina di persone, che ogni giorno girano per la città a bordo di bici cargo capaci di trasportare grandi quantità di merce. «Il progetto nasce da una passione per la bicicletta», spiega Theo, uno dei responsabili di Olvo, durante una pausa caffè all’interno del magazzino.
L’idea è quella di effettuare consegne in modo sostenibile, con un’attenzione particolare al lavoratore, che viene assunto con un regolare contratto. Un’alternativa alle condizioni offerte dalle piattaforme di food delivery, spiega Theo mentre saluta i primi rider che si apprestano a partire per il loro giro di consegne mattutino. «Ci differenziamo dagli altri perché siamo una cooperativa di logistica. Le nostre consegne vengono previste in anticipo e riguardano merce di vario tipo, che siamo in grado di trasportare grazie ai nostri modelli cargo dotati di un cassone abbastanza ampio», dice. «Nel nostro gruppo c’è chi ha cominciato con le piattaforme di food delivery, ma c’è anche chi si è riconvertito in questo settore cambiando radicalmente la sua vita».
Un’attività aperta a tutti, in un mercato del lavoro che a Parigi e nel resto della Francia si fa sempre più chiuso, spesso per motivi slegati dai caratteri professionali. ![]()
La frattura tra Parigi e la sua banlieue Basta fare un giro nelle banlieue per capirlo. Nella città della Tour Eiffel, della Senna e degli Champs Elysées, a volte basta un indirizzo di residenza scritto nel curriculum per essere scartati in fase di assunzione. Lo racconta Aisha, ventitreenne di origini pakistane, nata a Parigi ma cresciuta nel dipartimento della Seine-Saint-Denis, il più povero della Francia metropolitana, dove nel 2020 il 17,5 per cento della popolazione viveva sotto la soglia di povertà (secondo uno studio dell’Osservatorio delle diseguaglianze).
«Chi viene dalla periferia ha una sorta di etichetta incollata addosso», dice la ragazza, che dopo un master in controllo gestionale è stata assunta in un’azienda specializzata nella fornitura di servizi di consulenza.
Nel mezzo, però, ha vissuto una parentesi lavorativa in un grande marchio del lusso, durante la quale Aisha ha provato sulla sua pelle il pezzo della sua provenienza. «Noi che venivamo dalla banlieue non eravamo ben visti», dice. «Ogni tanto c’era qualche battuta, niente di pesante, giusto per farti notare che venivi da fuori, che non eri uno di loro». Sospira e dice: «In fondo a me è andata bene, ma ho amici e colleghi che vengono dalle mie stesse zone e che hanno subito episodi di discriminazione, spesso ben più gravi».
Due mondi paralleli, la città e la periferia, geograficamente separati solo dal boulevard périphérique, l’anello autostradale che abbraccia la capitale e che funge da linea di demarcazione per delimitarne i confini. «C’è una frattura tra Parigi e la sua banlieue e nessuno farà niente per sanarla. Tocca a noi farla sparire», dice Aisha.
Un paradosso per una città dove nel 2017 il 59 per cento degli 1,8 milioni di lavoratori risedeva al di fuori dei confini urbani, secondo una stima dell’Insee, l’Istituto di statistica francese. ![]() Ma il problema interessa tutta la Francia, come dimostra un’indagine condotta ad aprile dall’Istituto francese dell’opinione pubblica (Ifop), secondo la quale le persone che si dicono vittima di discriminazioni nel processo di assunzione sono quasi raddoppiate negli ultimi venti anni, passando dal 12% del 2001 al 21% del 2021. Dallo studio, condotto su un campione di 4mila lavoratori dipendenti, emerge che il 17 per cento durante il colloquio di lavoro si è sentito dire frasi “fuori luogo o sgradevoli” sulle origini, credenze religiose, nome o accento.
«Il problema della discriminazione nelle assunzioni include più elementi», spiega Nicolas Jacquemet, professore di Economia all’Università Sorbona Paris Pantheon e all’Ecole d’Économie de Paris. «Spesso nel dibattito pubblico si sostiene che la discriminazione è un problema di razzismo, ma dagli studi effettuati negli ultimi dieci anni emerge il fatto che si tratta di un fenomeno implicito e incosciente, riguardante riflessi spontanei indipendenti da noi», dice l’economista.
Aisha è riuscita a trovare un lavoro grazie a Mouv’Up, un’associazione lanciata con l’obiettivo di ricucire questo strappo tra Parigi e la banlieue accompagnando i ragazzi nel processo di inserimento professionale. «Siamo una start up attiva nel campo dell’economia sociale e solidale che ha capovolto il paradigma: invece di spingere il giovane verso l’impiego, come avviene sempre qui in Francia, partiamo dalla domanda che ci viene presentata dall’azienda in cerca di personale», dice Bernard Gainnier, presidente e co-fondatore di Mouv’Up insieme a Stephane Gatignon, ex sindaco di Sevran. In altre parole, l’associazione seleziona profili in base alle esigenze delle imprese, a cui vengono presentati i candidati considerati più idonei.
In un anno e mezzo, con questo programma è stato trovato lavoro a una sessantina di persone nonostante la crisi legata alla pandemia. E per il 2022 si punta a raggiungere quota 400. ![]() Con la collaborazione di associazioni locali, Mouv’Up entra in contatto con i giovani e li segue anche dopo l’assunzione. Ma spesso è necessario lavorare prima sul profilo dei candidati. «Venendo da determinati contesti, anche se in possesso di un titolo di studio, per timidezza o semplicemente per la scarsa conoscenza dell’ambiente di lavoro, hanno degli atteggiamenti e un modo di esprimersi che rendono scettiche le aziende», dice Gainnier. «Noi lavoriamo anche su questi elementi, insegnando loro a comunicare e a rispettare certe regole».
Ma bisogna anche superare le barriere erette dalle stesse imprese. «Le ragioni in base alle quali le aziende assumono poco i ragazzi delle banlieue sono molteplici», spiega Gainnier. Tra queste, c’è il mancato impegno del datore di lavoro, che è il «motore di questa evoluzione necessaria». I dirigenti devono avere la voglia di andare a cercare in zone periferiche profili differenti rispetto agli standard a cui sono abituati, con «capacità di innovazione, resilienza e funzionamento in grado di migliorare la performance» della società.
A questo si aggiunge poi la difficoltà nel rivolgersi a profili diversi: «Assumere persone che vengono dai quartieri sensibili significa superare problematiche, barriere inconsce». Per questo, spiega, spesso i manager preferiscono andare sul sicuro scegliendo candidati con profili legati a determinati percorsi e formazioni professionali, senza prendere particolari rischi.
Un percorso a ostacoli per chi viene da certe zone. «Questi giovani sono scoraggiati, non capiscono, hanno una visione negativa di un mondo che non gli è aperto. Alcuni si battono per riuscire, altri abbandonano e gettano la spugna», spiega Gainnier. Il rischio, per chi non ce la fa, è quello di allontanarsi sempre di più dal mondo del lavoro. E di restarne fuori, magari per molto tempo. ![]()
L’esercito dei Neet, i “giovani invisibili” Scoraggiati, senza un progetto di studio e di lavoro. Li chiamano Neet, un acronimo inglese che sta per Not in Education, Employment or Training, e che indica i giovani che si ritrovano senza nessun impiego e non seguono un percorso di formazione.
Secondo l’Istituto statistico francese Insee, nel 2019 in Francia erano Neet 1,5 milioni di ragazze e ragazzi tra i 15 e i 29 anni, il 12,9 per cento di questa fascia di età (contro il 12,5 per cento della media europea). Tra questi, il 47 per cento è disoccupato; il 20 per cento è inattivo, vuole lavorare ma non rientra nei criteri necessari per essere considerato come disoccupato, e il 33 per cento è inattivo e dichiara di non voler lavorare per diverse ragioni.
Solamente a Parigi, sempre nel 2019, questa categoria includeva 28.700 giovani tra i 16 e i 25 anni, secondo una stima dell’Atelier parigino d’urbanismo (Apur), un’associazione legata alla municipalità incaricata di condurre studi e rilevazioni sugli sviluppi urbani e sociali. Di questi, il 37 per cento si trovava nella zona est di Parigi, in particolare nel 18imo, 19imo e 20imo arrondissement. Un esercito di invisibili, che sfugge ai radar del mercato del lavoro.
«È una categoria eterogenea», dice Eric Heyer, economista e direttore del dipartimento analisi e previsioni dell’Osservatorio francese delle congiunture economiche (Ofce) all’Università Sciences Po di Parigi. «L’ambiente sociale di provenienza ha un ruolo fondamentale. Ci sono studi che dimostrano come alloggi insalubri influiscano sul rendimento scolastico, sul mancato inserimento professionale e sulla salute».
E a contare, e non poco, è il livello di istruzione. «Il sistema scolastico francese influisce sulla nascita di nuovi Neet perché è poco inclusivo», afferma l’economista. «Si investe molto tra asilo ed elementari, ma troppo poco nelle classi secondarie. È un fallimento per la nostra scuola repubblicana, che non permette a tutti di avere una probabilità di riuscita uguale». ![]() Lo sa bene Jordan, che oggi a 26 anni sembra aver trovato finalmente il suo percorso professionale nel settore della falegnameria artistica. Ma il suo cammino è stato lungo prima di imboccare la strada giusta. «Verso i 14-15 anni ho cominciato a soffrire di agorafobia e sono stato costretto ad abbandonare la scuola prima della fine dell’età dell’obbligo, che in Francia è fissato a 16 anni», racconta.
Da lì per Jordan è cominciato un calvario, durante il quale ha alternato attività di formazione e periodi di vuoto. «Dopo circa un anno senza far niente, ho cominciato un corso da meccanico, ma nell’azienda non mi trovavo bene soprattutto a causa dei colleghi, tutti molto più grandi di me». Così Jordan molla, passa altri sei mesi “a vegetare” prima di cominciare un nuovo percorso formativo come camionista. Ma anche questa volta non va bene. «Mi sentivo sotto pressione. Ero ancora troppo giovane e credo che mi sia stato chiesto un livello di rendimento troppo alto per un ragazzo di quell’età», ammette.
Alle difficoltà legate all’inserimento nel mondo del lavoro si affiancano i problemi sociali, per un ragazzo che conduce una vita radicalmente diversa rispetto a quella dei suoi amici. Jordan dice: «Non sono una persona socievole alla base, se poi si pensa che mentre gli altri erano a scuola io me ne restavo a casa...».
Finché arriva a intravedere la luce alla fine del tunnel quando inizia un percorso di formazione di due anni nel settore della fibra ottica. Jordan è soddisfatto, segue con interesse i primi 12 mesi, ma poi è costretto a fermarsi di nuovo. «Ho avuto un incidente fuori dall’orario di lavoro e sono rimasto ferito a un occhio rimanendo quasi cieco per un anno. Ancora oggi non riesco a vedere bene», dice.
Un altro periodo di buio, reso ancora più difficile dalla depressione e dagli psicofarmaci presi per curarla. Questa volta sembra impossibile ripartire. Ma a dare la spinta ci pensa la Missione locale, un organismo legato al Ministero del Lavoro e presente su tutto il territorio francese, che ogni anno accompagna 1,1 milioni di giovani tra i 16 e i 25 anni sostenendoli nella ricerca di un impiego. «Il mio consigliere, Max, mi ha indirizzato verso una formazione specializzata nella lavorazione del legno, così mi sono rivolto alla Fondation Auteuil a Sannois, a nord est di Parigi, dove attualmente mi sto preparando per prendere il Brevetto dei mestieri dell’arte, un diploma nazionale di studi secondari e di insegnamento professionale». ![]() Jordan ormai è un ex Neet. Ma in Francia non tutti i Neet riescono ad avere un lieto fine come quello di Jordan. Per questo, il presidente Emmanuel Macron lo scorso luglio ha annunciato l’arrivo di un aiuto specifico. Un “reddito di impegno”, lo ha chiamato, destinato ai giovani senza lavoro o formazione che “sarà fondato su una logica di doveri e diritti”. La misura dovrebbe completare il piano “1 giovane, 1 soluzione”, lanciato dal governo nell’estate dello scorso anno in piena crisi sanitaria, con un finanziamento complessivo di 9 miliardi di euro.
Ma la presentazione della misura nel momento in cui pubblichiamo l’inchiesta ancora non è arrivata. A inizio settembre, il primo ministro Jean Castex ha dato qualche dettaglio, spiegando che sarà un “accompagnamento esigente”, mentre il quotidiano economico “Les Echos” ha anticipato un ridimensionamento del programma, destinato a 500mila giovani, la metà di quanto si credeva inizialmente, a cui dovrebbe andare un aiuto di circa 500 euro al mese.
Un contributo atteso da molti ragazzi, che a differenza di Jordan non sempre possono contare sul sostegno di una famiglia. «Mi madre è stata un aiuto fondamentale in quei momenti», dice oggi l’ex Neet. Poi si ferma, ci pensa un attimo: «E lo è ancora oggi». Una fortuna in una metropoli come Parigi, dove la solitudine spesso è la prima barriera da abbattere. ![]() Credits Inchiesta di
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